Fotografia

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Sulla soglia

C’è un momento, prima che il mondo entri, in cui tutto è sospeso. Lei sta lì, davanti alla porta della sua stanza. Indossa solo il silenzio. Fuori, il rumore delle aspettative. Dentro, un respiro trattenuto da troppo tempo. Le dita sfiorano la maniglia: ogni volta che apre, lascia che qualcosa di sé venga invaso. C’e’ un confine tra il mondo interiore e quello esteriore che non è sempre facile varcare. Corpo e anima si scindono.

Stanze chiuse

Lui. Ogni parola era una lama e la sua presenza era come il fumo: penetrava ovunque, senza chiedere permesso. La voleva piccola e addomesticata, ma non la guardava mai davvero. Ogni volta che parlava, qualcosa in lei si ritraeva. E ogni silenzio diventava un grido sordo nella testa.

Ci sono luoghi in lei che nessuno ha mai raggiunto. Nemmeno lui. Soprattutto lui. Non bastano carezze meccaniche. Non bastano parole svuotate del loro significato. Lei ha fame di profondità, di dialoghi che accarezzano la mente, di mani che toccano senza ferire. Ma quegli uomini non cercano stanze, cercano accessi. Entrano, prendono e lasciano la porta aperta. E lei deve raccogliere i cocci, sola. Il suo corpo si è fatto corazza. Il suo cuore è un archivio di fratture.

Segni invisibili

Non si vedono, ma bruciano ogni giorno. C’è una violenza che non fa lividi, ma scava dentro. È quella che ti fa dubitare di te stessa. Certe ferite non sanguinano, non si vedono sulla pelle e non fanno rumore eppure, ogni giorno, fanno più male di qualunque colpo.

I segni invisibili sono le vere cicatrici, quelle che non si possono mostrare per ricevere compassione. Non sono il taglio netto sulla pelle, ma l’eco sorda di una porta che sbatte, il peso di uno sguardo che ti misura e ti trova mancante. Sono le parole non dette che marciscono dentro, trasformandosi in un veleno lento che impari a bere ogni giorno, fino a convincerti che sia l’unica acqua possibile.

Ci sono parole che restano attaccate al corpo come polvere negli angoli. Ogni frase si è fatta graffio. Ogni silenzio si è fatto eco e lei, che una volta rideva senza pudore, ora pesa ogni gesto, ogni parola. Cammina come se dovesse chiedere scusa per il solo fatto di esistere. Come si spiegano quelle notti insonni, in cui si gira e rigira nel letto con il cuore stretto in gola? Come si spiegano le volte in cui si guarda allo specchio e non si riconosce più?

Così ha cominciato a tagliarsi da sola, ma non con lame, ma con la colpa, con la vergogna e con quel senso di inadeguatezza che si infiltra ovunque: nel modo in cui si veste, si muove, si ama. Le sue cicatrici non sono sulle braccia. Sono nel cuore, nel ventre e nella voce spezzata ogni volta che cerca di spiegare e non viene creduta.

È l’unghia che si conficca nel palmo della mano per non urlare. È la postura che si incurva, come a volersi nascondere dal mondo, a rimpicciolire fino a scomparire. Questi segni non sono sulla pelle, ma sotto la pelle. Sono la geografia di una guerra silenziosa combattuta ogni giorno dentro le pareti di una casa che doveva essere un rifugio e si è fatta prigione. Il corpo diventa la mappa di questa prigionia: ogni nervo teso è una sbarra, ogni sospiro trattenuto è un lucchetto.

Ma lei è ancora lì, cammina, respira e sorride, anche se nessuno vede il peso che si porta addosso. Perché la sua più grande forza è quella di continuare a vivere, nonostante tutto.

Un rito segreto

Nel buio, dove nessuno vede, si accarezza l’anima, senza spettatori. Si spoglia, lo fa per sé, finalmente si appartiene per sentirsi ancora viva, sotto la pelle. Nessuno lo sa, ma nel silenzio, lei si ritrova, si sfiora, si ascolta e si riconosce. Respira come non fa mai durante il giorno.

Non è un gioco, non è un’abitudine, non è peccato. È un rituale antico, sussurrato nel buio, ereditato da chissà quante donne prima di lei. Non c’è nessuno a guardarla. Nessuno da compiacere. Nessuno da deludere. Solo lei. Si spoglia lentamente, non per seduzione, ma per liberazione. Toglie strati di ruoli, parole, aspettative. Seduta sul bordo del letto lascia che l’aria le sfiori la pelle. Chiude gli occhi, in quel momento, il suo corpo non è un oggetto da mostrare o nascondere. È uno spazio sacro da esplorare. Le dita che percorrono lente una gamba, un fianco, il ventre. Non è un gesto erotico finalizzato a un piacere definito, ma un atto di conoscenza, sentire il calore, la morbidezza, la consistenza del proprio corpo. È accarezzare quelle stesse parti che sono state ignorate, disprezzate, usate. Le sue mani conoscono strade che nessuno ha mai percorso davvero in un atto di verità. Non è un gesto per un altro, ma un’esplorazione per sé.

La mano si muove tra le gambe non cerca soltanto, ma trova la verità. È un piacere solitario che grida “Io esisto e sento. Sono mia”. Atto sacro e selvaggio, un modo per lavare via con le proprie mani il tocco altrui nel buio della stanza, senza parole.

Il piacere che nasce non ha nome. I pensieri convergono in una forma d’onda che segue i movimenti del corpo. Sempre più intensi, enfasi di sensazioni, odori, fragranze ancestrali sempre più fusi e confusi. È la conferma che lei esiste anche senza essere desiderata da qualcuno. Che può bastarsi. Che il suo desiderio è un linguaggio ed è un atto di ribellione intimo e potentissimo.

A volte piange, mentre si accarezza. Non per tristezza. Ma per tenerezza. Perché in quel momento sente di esistere, davvero. Nuda sotto le lenzuola, non ha bisogno di niente. Non chiede. Non cerca. Ha solo bisogno di silenzio e di un piccolo spazio inviolabile dove torna a essere sua. Corpo e anima si fondono.

Spoglia in penombra.
Non per sedurre,
ma per appartenersi.
Le dita risalgono la pelle,
si aprono tra le gambe.
sfiorano lentamente, toccano intensamente.
Non ha fretta, controlla il tempo.
Ascolta il piacere nascere
poi cresce inarrestabile.

Ogni tocco è rivincita,
ogni sospiro un sì.
Un gemito rivela il salto
in una dimensione superiore.

Bagnata, viva, intera,
a volte piange
non di tristezza,
ma di potere.
Perché nessuno la possiede.
Solo lei.

Fioritura silenziosa

Dove tutti avevano cercato ferite, lei ha fatto crescere fiori. Non ha più bisogno di essere capita. Ora si basta. Cammina nella città senza fretta. Sorride solo quando lo sente. Ogni gesto è un atto di rivoluzione intima. Ogni passo, una dichiarazione d’amore per sé e se qualcuno vorrà starle accanto, dovrà entrare piano, scalzo e chiedere il permesso.

Sfiorami con lo sguardo senza toccare, senza prendere,
solo il brivido di un’ombra che indugia sulla mia pelle.

Il respiro è trattenuto tra le labbra
un filo di luce danza sulle linee del corpo.

Mi riconosco nel tessuto delle lenzuola
sola, nell’abbandono dolce di chi sa di non dover chiedere permesso.

Non guardarmi per vedermi,
immaginami nel battito lento del tuo pensiero.

La seduzione non è mai nel mostrarsi,
ma nel sussurrare ciò che non si osa dire.

Appunti di immagini, suggestioni, idee, tecniche…

  • Donna con un telo, controluce, ferma davanti ad una porta socchiusa;
  • donna seduta, rannicchiata; ombra proiettata sul muro dietro di lei;
  • donna di spalle con il capo chino contro una parete;
  • donna che cammina scalza in una stanza vuota con oggetti di arredo;
  • nudo femminile parziale con scritte sul corpo, viso nascosto dalle mani;
  • ambiente quasi buio e tempi di esposizione molto lunghi. Sul corpo del soggetto con una piccola fonte di luce;
  • corpo immobile, la luce non lo illumina, ma lo traccia. Segui con la luce le linee di tensione muscolare, le curve di una schiena contratta, il percorso di un respiro affannoso sul petto. È la visualizzazione astratta della mappa del dolore che solo lei sente.
  • Ripresa fotografica ravvicinata per perdere ogni riferimento. Fotografa la texture della pelle su un braccio, le linee alla base del collo, la curva di un’anca che diventa una duna di sabbia. L’immagine finale sarà una superficie organica, sensuale e misteriosa, che parla di fluidità, contatto e intimità senza mostrare nulla di riconoscibile.
  • donna appoggiata al muro;
  • letto disfatto con la donna rannicchiata sul bordo, di spalle;
  • donna seduta con velo addosso di schiena;
  • Rappresentazione di un corpo in movimento dietro un sipario opaco che lascia vedere solo una sagoma indefinita del corpo;
  • donna che si lava, da sola, in piedi sotto la doccia;
  • donna davanti ad uno specchio opacizzato;
  • Movimento della fotocamera durante lo scatto su più esposizioni sullo stesso fotogramma in un ambiente con una luce morbida e calda imposta un tempo di scatto lento (es. 1/2 secondo).
  • Scatto a un dettaglio del corpo (il ventre, una mano che accarezza una gamba) muovendo la macchina fotografica in un gesto morbido e curvo, come una carezza. Sullo stesso fotogramma, secondo scatto, fermo, a un dettaglio quasi irriconoscibile.

Lettera a te, che sarai il volto e l’anima di questa storia

A te, che stai per prestare il tuo corpo e il tuo cuore a questa narrazione. Non sei solo la protagonista di un progetto. Sei il tempio di qualcosa che pochi hanno il coraggio di guardare davvero. Attraverso di te scorrerà una storia che non è solo tua, ma di tutte. Una storia fatta di silenzi inghiottiti, carezze mai arrivate, piaceri trattenuti e paure che hanno dormito accanto al corpo come amanti indesiderate. Questo progetto fotografico non ti chiederà di esibirti. Ti chiederà di spogliarti di ciò che non sei, per lasciare spazio a ciò che hai nascosto. Ti chiedo di entrare, con me, in quelle stanze dove il desiderio si fa sottile, intimo, quasi sacro. Il tuo ventre non è solo un luogo di passaggio. È un altare. Le tue mani che scorrono sulla pelle non sono peccato: sono preghiera. Ti chiedo di dare volto alla donna che, sola nella propria stanza, si accarezza senza fretta. Che non si giudica. Che si guarda e si accoglie. Che si permette di sentire — e non solo con il corpo. Perché il desiderio più nascosto non è quello di essere toccata, ma di essere compresa. Attraverso i tuoi gesti racconteremo anche la frustrazione di un’intimità violata. Di un uomo che non ha saputo ascoltare il tuo no. Che ha preso ciò che non era suo. Che ha invaso senza entrare davvero. Sarai anche quella ferita. Ma non per restarci dentro. Ogni sguardo in macchina, un’accusa. Ogni sguardo lontano, un sogno. Ti chiedo di permettere alla lente della mia macchina fotografica di vedere ciò che gli altri non hanno mai voluto guardare: la donna che desidera, che soffre, che si spegne e che rinasce. Permetti, per una volta, la tua pelle sia linguaggio. Che il tuo silenzio sia poesia. Che il tuo corpo racconti ciò che è stato messo a tacere troppo a lungo.

Con rispetto e gratitudine, Alessandro

copyright © 2022 · alessandro gagliardini · fotografo

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